venerdì 11 settembre 2009

Il lavoro

1.

"Il Papalagi ha tanti lavori, quante sono le pietre nel fondo della laguna. Di ogni attività fa un lavoro. Se uno raccoglie le foglie appassite dell'albero del pane fa un lavoro. Se uno pulisce le stoviglie, fa un altro lavoro. Tutto è lavoro se si fa qualcosa. Con le mani o con la testa. Anche pensare o guardare le stelle sono lavori. Non c'è niente che possa fare un uomo che il Papalagi non possa trasformare in lavoro."

Tuiavii di Tiavea, Papalagi, pag. 39

Il lavoro è il più grande idolo del Papalagi, fin dalla più tenera età ci viene chiesto "che lavoro vuoi fare da grande?", ci viene insegnato a distinguere gli sconosciuti in base al loro mestiere, ci vengono presentate le attività quotidiane come mestieri. Tutta la buona educazione, volta a farci diventare buoni cittadini, non fa che ricordarci costantemente il nostro primo dovere verso la società: lavorare.

Il lavoro è un'astrazione che si distingue dalla semplice attività, per tutta una serie di motivi:

1) Presuppone una valutazione e gerarchizzazione delle attività tramite il riconoscimento monetario; questa è totalmente dettata da logiche di potere e logiche economiciste. Ovviamente questa gerarchizzazione delle attività si rispecchia in una gerarchizzazione tra le persone, il dipendente è subordinato al datore, il panettiere è subordinato al calciatore, e questo tende a rispecchiarsi nelle possibilità concesse ad ognuno nella società, differenti secondo la condizione economica garantita dal lavoro.
Questa gerarchizzazione delle attività non ha nessuna giustificazione di nessun tipo, è un dato in sè su cui nessuno si fa domande: ma perchè fare il minatore in cunicoli pericolosi con la seria possibilità di prendersi la silicosi e morire precocemente dovrebbe pagare meno di gestire l'organizzazione della miniera stessa? Perchè lavorare nello spettacolo garantisce normalmente introiti nettamente maggiori che lavorare in campagna?, è forse più duro, o più utile? Queste semplici domande colpiscono il non senso base della società del lavoro, il peccato originale che genera la sua stortura. Parlare di democrazia e uguaglianza in una società basata su questo è una mera idiozia: nella società del lavoro le persone non godono degli stessi diritti.


2) L'attività lavorativa si svolge sempre con precisi obblighi la cui non osservanza porta all'esclusione. Questi possono essere più o meno onerosi e più o meno remunerativi a seconda delle garanzie ottenute, della forza contrattuale, dell'insostituibilità o meno della manodopera, dei rapporti personali, di leggi scritte e non scritte, della natura dell'attività, delle condizioni economiche generali, eccetera eccetera.

In ogni caso, non è mai una libera attività, anche nel caso del lavoro cosiddetto autonomo: le forze che intervengono a normarla e direzionarla sono troppo grandi.
Il lavoro è un'attività subordinata, sempre, quantomeno alle logiche e ai rapporti di forza del mercato, un'attività che richiede sempre un atto di sottomissione da parte di chi vi si sottopone, e si organizza sempre secondo un rigido sistema di controllori e controllati, capi e sottoposti.

3) Presuppone una divisione tra attività ben configurata, che renda i compiti precisi, che porti ad una progressiva specializzazione del professionista. Questa, a sua volta, porta ad una visione della società e della vita sempre più limitata, un'identificazione esagerata della persona con quella che resta l'unica attività della sua vita, un'incapacità generale di capire chi svolge attività differenti, di mettersi nei panni di chi le pratica; soprattutto, un'incapacità di mettersi nei panni di chi dovesse diventare vittima dell'attività che si svolge abitualmente. Una volta che la specializzazione si è fatta tutt'uno con la vita della persona, la sua specialità tende a rimanerne l'unico orizzonte: c'è poco da stupirsi se integerrimi ricercatori di indiscussa onestà abbiano prodotto mostruosità come la bomba atomica o le armi batteriologiche.

4) Presuppone un obbligo verso di sè e una responsabilità morale verso la società intera, chi non lavora è una persona svalutata, destinata all'emarginazione; chi lavora deve fare tutto il possibile per mantenere l'occupazione e non finire nell'emarginazione, a costo di sobbarcarsi carichi di lavoro inumani.

5) La qualità dell'attività è totalmente indifferente, l'unica cosa che conta è che sia certificata da un guadagno monetario. Ai fini del lavoro, produrre medicine o bombe è la stessa identica cosa, produrle a buone condizioni o in stato di schiavitù, anche. Il lavoro rientra in pieno nelle ottuse categorie economiciste che misurano il Prodotto Interno Lordo, criteri puramente quantitativi, indifferenti ad ogni idea di qualità della vita.

In definitiva, il lavoro è un'attività svolta nel circuito del Mercato, secondo le sue regole. Non a caso si parla di come gli studi debbano garantire un titolo spendibile nel "mercato del lavoro", di come le persone debbano sempre tenersi aggiornate, attive, seguire sempre corsi, "sfruttare" i periodi di disoccupazione per prepararsi ad una nuova occupazione...


2. (Il lavoro nel tempo del precariato)

"Un cadavere domina la società: il cadavere del lavoro. (...)la società dominata dal lavoro non sta vivendo una crisi passeggera, ma si scontra con i suoi limiti assoluti. In seguito alla rivoluzione microelettronica, la produzione di ricchezza si è sempre più separata dall’utilizzo di forza-lavoro umana, e in una misura tale che fino a pochi decenni fa era immaginabile soltanto nei romanzi di fantascienza. Nessuno può seriamente affermare che questo processo possa fermarsi o addirittura essere invertito. La vendita della merce “forza-lavoro” sarà nel ventunesimo secolo tanto ricca di prospettive quanto nel ventesimo la vendita di diligenze. Ma chi in questa società non riesce a vendere la sua forza-lavoro è considerato “superfluo” e finisce nelle discariche sociali."
(Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro)


L'immane corsa al lavoro in cui siamo immersi nell'era del cosiddetto precariato rispecchia una condizione paradossale ormai consolidata: le persone richieste dal mercato del lavoro sono molte di meno di quelle effettivamente esistenti.
Questo porta ad una concorrenza sempre più spietata per un posto di lavoro, ad una esclusione sempre più frustrante e disperata per chi esce sconfitto.
La disgregazioine dei rapporti umani nelle comunità ha un suo punto di partenza in questa immane corsa di tutti contro tutti.
La sopravvivenza è un diritto che si acquisisce tramite il lavoro, ma lavoro per tutti non ce n'è.

Recenti evoluzioni, come i nuovi contratti del lavoro precario, i nuovi lavori dell'economia dei servizi, non sono altro che tentativi di tenere in vita il pesante cadavere del lavoro:
far lavorare più persone per meno tempo, mettendole costantemente di fronte alla propria facile sostituibilità, lasciandole sempre appese ad un filo che è lì lì per spezzarsi, è un ottimo modo per tenerle sotto controllo.
Queste continueranno a restare nell'orbita del mercato del lavoro, il loro lavoro sarà cercarsene uno, avranno poco da discutere sulla sua qualità, vivranno oppresse dal bisogno di lavorare come prima si viveva oppressi dal bisogno di mangiare.
In realtà il bisogno è sempre mangiare, solo che senza rendercene conto, abbiamo totalmente introiettato la logica che il diritto a mangiare si acquisisca tramite il lavoro, invece di gridare "pane", ora si grida "lavoro", ma il significato non è lo stesso.
Richiedere lavoro, vuol dire accettare una propria subordinazione, per quanto condizionata, vuol dire in qualche modo accettare il fatto che chi non lavora non mangi, e che il mangiare sia dispensato da qualcuno più forte in cambio del proprio tempo e della propria fatica.

Il sistema del lavoro è sempre più totalitario, fondato sul controllo dell'attività del lavoratore, sul suo obbedire incondizionato alle regole stabilite dal mercato, o dall'azienda. La disciplina aziendale rende normali le più assurde violazioni della libertà, specialmente ultimamente, nel sistema del lavoro precario e del terziario cosiddetto "avanzato".
Non a caso, le aziende vogliono avere sempre più in mano la formazione dei propri dipendenti, formazione che assomiglia più a un lavaggio del cervello, fatto di pochi concetti ripetuti a oltranza, di poche nozioni pseudo-scientifiche (specialmente di psicologia d'accatto), della costruzione di un immaginario in cui l'azienda è la perfezione, in cui chi va avanti nell'azienda tende verso la perfezione, chi resta indietro è un mediocre ed è solo colpa sua (Partecipate al breve corso della Kirby che tengono settimanalmente, troverete l'annuncio di una "azienda leader del settore" nel giornale di annunci di lavoro della vostra zona, e vedrete questa filosofia ai suoi massimi).

Non basta più donare le proprie braccia, o i frutti della propria mente, ormai il sistema del lavoro richiede anche l'anima.
Il verbo del "sii positivo! sii ambizioso!" si fa strada, nascondendo i veri significati, che sono: "accetta qualsiasi cosa in silenzio e con un sorriso finto! sii pronto a calpestare chiunque per due briciole in più!".
La concorrenza spietata per un posto di lavoro produce mostruosità di ogni tipo, abitua alla menzogna costante su sè stessi, ad indossare una maschera per il lavoro che renda il proprio volto accettabile, rendendo le persone irriconoscibili l'una all'altra per quello che sono, mantenendole estranee. A guardia di questa estraneità sono posti i capi reparto, i team leader, promossi per la loro maggior capacità di recitare e di portare avanti la rappresentazione. E così, mano a mano, avviene la scalata gerarchica.
Il sistema dell'organizzazione aziendale è un sistema folle, dove tutti sono frustrati e piegati e logiche inumane e tutti fanno a gara per nasconderlo e mostrare invece la propria soddisfazione; perchè una delle prime cose che viene insegnata a tutti è che un uomo di successo è un uomo soddisfatto, chi non è soddisfatto di ciò che fa è un perdente, e come tale destinato al disprezzo, all'emarginazione, al licenziamento.

La gran parte dell'economia è parassitaria, fondata sull'imposizione di servizi non richiesti da nessuno tramite la propaganda pubblicitaria, la moda, il conformismo. La gran parte delle attività svolte nel mondo del lavoro sono futili, attività che se svanissero in un giorno nessuno se ne accorgerebbe; anzi, sono dannose, vista la quantità di energia sprecata, di inquinamento prodotto. Eppure il cessare di queste attività crea sempre vivaci proteste, lotte sindacali, disperate azioni di rabbia dei lavoratori; sempre per la solita logica folle per cui chi non lavora non ha diritto a mangiare. Se chiudessero tutte le fabbriche di armi del mondo, invece di festeggiare per la fine dell'insana attitudine degli uomini ad ammazzarsi tra loro, migliaia di lavoratori scenderebbero in piazza per il proprio posto di lavoro. Non è follia tutto ciò?

2 commenti:

sulu ha detto...

assolutamente ottimo...

giul ha detto...

l'altro giorno ho incontrato un ex compagno del liceo e appena ha saputo che mi ero laureata da un anno e mezzo, ha domandato (ma era un'esclamazione!): ah, stai lavorando? (sulu testimone)

volevo dire bravo eddy per la lucidità! (e la destrutturazione!) veramente.
poi volevo dire che quel foglio che ho dato all'orto botanico a sulu, la prima lettera di anders a eatherly, c'entra, centra, insomma lèggitela e integra!! secondo me è importante.
qui on line:
http://www.presentepassato.it/Dossier/900barbaro/hiroshima4_eatherly_anders.htm

poi poi Vita Activa della Arendt, sulla distinzione tra lavoro, opera, azione.

poi poi l'avviso agli studenti... l'ho letto un po' di tempo fa e missà che mi era piaciuto, qua:
http://www.filiarmonici.org/avviso00.html

augh

(la parola di verifica per postare commento è disob) (mmm)