Rubrichette e manuali di resistenza attiva alla società dei Papalagi

lunedì 30 novembre 2009

L'università

1)

L'università è quel luogo in cui il papalagi presume di raccogliere tutto il meglio dei sapienti e del sapere della sua epoca.
E' il luogo in cui il papalagi certifica che una data cosa sia sapere, il luogo in cui ogni sapere viene vagliata, sezionato, analizzato, confrontato, giudicato, esteso, rivoltato, ridotto, manipolato, creato, conservato.
Nella rigida mania classificatoria del papalagi, l'università è Il Luogo in cui si definisce Il Sapere.

Il papalagi, fin dall'infanzia, viene fatto passare attraverso vari stadi di istruzione, alcuni obbligatori, in cui gli viene insegnato ciò che è ritenuto indispensabile per vivere nella società; in cui tramite un sistema di votazioni si decide quali papalagi siano migliori degli altri e quindi più degni di un posto di rilievo nella detta società.

Nella serie di riti d'iniziazione caratteristici del percorso d'istruzione, l'università è il passaggio che consente di entrare dentro la più o meno ristretta cerchia degli illuminati di una singola materia, di coloro che sanno.
Il sapere accademico ha una spessa aura sacrale intorno a sè, e i suoi sacerdoti, i professori, ne sono custodi e prosecutori.

Il modo in cui è strutturato lo studio è per molti versi uguale al modo con cui l'attività è organizzata nel lavoro (vedere post precedente), questo è vero in particolar modo per lo studio universitario.
D'altronde la necessità di rimodulare il mondo della cultura perchè si adegui ai vertiginosi cambiamenti della società del lavoro è diventata luogo comune, lo ripetono da anni l'unione europea, i governi, le organizzazioni degli industriali, gli stessi organi di autogoverno delle università.
Effettivamente, il lavoro all'interno degli istituti universitari non è differente rispetto all'esterno, e lo studio stesso tende sempre più ad assomigliare ad un lavoro.

In realtà l'università è un pilastro fondante del sistema del lavoro, e proprio in questi anni il suo sostegno è divenuto decisivo.

Abbiamo detto, nell'articolo precedente, che ormai le persone richieste dal mercato del lavoro sono molte meno di quelle disponibili. In questa situazione, l'università ha assunto il ruolo di un'immane diga che trattiene dall'entrata nel mondo del lavoro immense quantità di giovani altrimenti destinate alla disoccupazione, con le tensioni sociali conseguenti.
E infatti, di anno in anno, aumenta la mole di studio necessaria a parità di lavoro: se prima per fare i maestri ci si diplomava alle magistrali, ora non basta più nemmeno la laurea, eppure i programmi delle elementari non sono cambiati così tanto.
La concorrenza spietata per il posto di lavoro spinge a una caccia di titoli sempre maggiore per rendere il curriculum più appetibile, questo oltre ad alimentare il sistema dei tirocini e degli stage non pagati (ovvero la concorrenza per un lavoro che spinge verso zero le richieste salariali), alimenta il circuito dei corsi e dei titoli post-laurea.
Se prima la laurea era il traguardo ultimo di una lunga carriera da studenti, ora questo ultimo traguardo si sposta sempre avanti: il lavoro stabile e ben pagato che non otterrò con la laurea, forse lo otterrò con il master; se non con il master, forse con il dottorato...
L'università consente di dilazionare all'infinito una promessa che non si avvererà mai, costringendo nel frattempo a una vita di sacrifici continui e poche pretese, sempre appesi a un filo. Pochi lavori hanno raggiunto il livello schiacciante di precarizzazioni raggiunto dai settori della conoscenza e dell'innovazione.

L'università svolge un'altra funzione fondamentale verso il mondo del lavoro: quella di aprirgli continuamente nuovi campi di sviluppo su cui continuare la corsa infinita verso la crescita economica; tramite la ricerca, l'onere rischioso di aprire nuove strade al mercato viene scaricato sulle istituzioni universitarie, mentre l'onore di percorrere queste nuove strade tramite la produzione industriale rimane normalmente alle aziende.

2)

Il sapere è diviso in discipline, sottodiscipline, branche di branche di discipline, all'infinito. Ogni disciplina, mano a man che va più in profondità nei suoi studi, tende ad ingrandire sempre più il suo corpus di dati, così che per poterne diventare "professore"(ossia massimo sacerdote, colui che ne comprende appieno tutti i segreti) gli studi diventano sempre più ardui, estesi, ingombranti.
Chiunque voglia eccellere, deve tendere inevitabilmente a fare dei suoi studi l'unico campo di suo interesse, se vuole mantenere il passo con l'espansione continua della sua disciplina.
Questo rende le discipline, man mano che s affermano e costituiscono il loro corpus di tradizioni e verità, sempre più autoreferenziali. Allo stesso tempo, il continuo approfondimento di aspetti particolari, o inattesi, porta alla generazione di nuove discipline, le quali col tempo tenderanno all'autoreferenzialità e alla generazione.
L'espansione infinita del sapere è retta dalla frantumazione infinita dello stesso. Nemmeno un supergenio come nessuno ha mai visto potrebbe padroneggiare al massimo livello più di un'infima quantità delle discipline (quindi del sapere) attualmente in essere.

Questo pone grossi problemi ad una posizione come quella espressa dalla gran parte dei movimenti studenteschi contro le varie riforme in senso neoliberista dell'università: come si può difendere a spada tratta e acriticamente un sistema come quello della ricerca (che non fa che replicare l'eterna logica della crescita, applicandola al sapere invece che alla ricchezza monetaria)?

L'entropia generata dalla specializzazione estrema delle conoscenze è uno dei problemi più grossi della nostra società, le prospettive aperte da ormai moltissimi campi di ricerca (dalla bioteconologia, ai sistemi di controllo elettronici, agli studi sul funzionamento del cervello, a tutte le applicazioni militari, e così all'infinito) sono quantomeno agghiaccianti e pongono problemi enormi sulla base del potere che sono in grado di consegnare ad alcuni esseri umani.
La libertà della ricerca rischia di essere quel valore che porterà alla fine di qualsiasi libertà.
In più, la specializzazione estrema, escludendo dal campo della ricerca qualsiasi riferimento esterno ad essa, più tende ad approfondire e meno sembra tener conto del mondo su cui andrà ad applicare i suoi risultati, con l'inevitabile impatto devastante che già innumerevoli volte ha avuto l'applicazione di un pensiero riduzionista su un mondo complesso.

3)

Come il lavoro è basato su una netta divisione gerarchica delle attività, così lo studio è basato su una netta divisione gerarchica dei saperi: ci sono saperi più o meno degni di essere studiati, saperi che non sono degni di essere studiati.
Questo non è un dato naturale, come ci appare dopo quindici anni di scuole improntate secondo una certa scala di valori, è il frutto di scelte operate da qualcuno in base alle sue priorità ideologiche. La scuola, nel momento in cui è cultura, è anche indottrinamento, e non sto dicendo nulla di nuovo.
Questa divisione gerarchica è sancita dal titolo di studio: di fatto si può diventare dottori solo riguardo a certi ambiti di conoscenza, dopo aver studiato solo ben determinati ambiti dello scibile umano.

Tendenzialmente, tutto ciò si traspone in una netta preferenza del sapere teorico al sapere pratico, nell'idea profondamente radicata per cui il lavoro intellettuale deve dominare il lavoro manuale, per cui solo il sapere teorico può essere degno della èlite della società, la cui creazione resta l'obiettivo principale per cui tutta l'istituzione universitaria esiste.
Ma se un tempo il titolo di studio garantiva l'effettiva eccellenza dell'attività cui si riferiva, i cambiamenti avvenuti nel sistema del lavoro hanno abolito questa equivalenza.
Molte delle attività che l'università nel suo conservatorismo considera ancora d'èlite e superiori, sono ormai considerate obsolete.
Come reliquie della gloriosa cultura borghese otto-novecentesca resistono appese al loro passato molte facoltà umanistiche, per esempio, condannate a una marginalità subita più o meno dignitosamente, come vecchie dive del film muto.
Il mondo del lavoro ha poco da proporre loro, se non forse una dolce eutanasia.

Esiste una forte discrepanza tra il sistema di gerarchie e discipline dell'università e quello del sistema lavorativo; la politica dei governi verso l'università si può riassumere nel tentativo di appianare questa discrepanza in favore del sistema lavorativo: "rendere spendibile il titolo di studio nel mondo del lavoro".

4)

Le proteste in difesa dell'università "libera, pubblica e di massa" hanno semplificato troppo i termini della questione.

Da un lato l'università è strutturata per essere intrinsecamente d'èlite e asservita a un idea di dominio che pur essendo superata rimane tale (l'iscritto all'università punta all'acquisizione di un sapere convenzionalmente stabilito dal titolo di studio allo scopo di ottenerne uno status sociale).

Dall'altra, la sintonizzazione traumatica delle sue funzioni a quelle del mondo del lavoro (col venir meno della sicurezza dello status sociale di cui sopra) non impone necessariamente vincoli alla libertà della ricerca e alla ricettività di massa dei corsi universitari; essendo questi bacini da cui trarre linfa vitale, essendo la diga rappresentata dall'università essenziale per la tenuta momentanea del sistema del lavoro.

Nel mezzo di questo ginepraio rimane un'intera generazione: mantenuta nello stato di minorità dell'eterno apprendistato e del lavoro che non dà più neanche l'illusione dell'indipendenza, o asservita totalmente alla logica inumana della macchina innovativa-produttiva-innovativa-produttiva-etc. pur nella libertà delle proprie scelte di vita e nella totale innocenza dei propri intenti.


All'esterno rimane una immensa mole di saperi spazzati via dalle scelte ideologiche di chi ha costruito il sistema dell'istruzione e dal peso schiacciante delle innovazioni che più hanno avuto successo nel mondo del lavoro; saperi caratteristici di intere comunità che sono rimaste schiacciate o distrutte dal dominio di questo sistema, quasi sempre insieme ai propri territori.

Quello universitario non è l'unico modo di trasmissione possibile dei saperi, anche se tutto il sistema ideologico dell'istruzione porta a crederlo, e a considerare "sapiente" in base al possesso di un foglio di carta rilasciato dalle università.



N.B.

Naturalmente lo scrittore di questo articolo è iscritto all'università e si gode la permanenza nella diga prelavorativa.
Altrimenti non avrebbe mai scritto roba del genere.
Non starà qui a scusarsi dei motivi personali e più o meno contingenti della propria flagrante incoerenza.

Questa non inficia assolutamente la sostanza del discorso.